FUCINA MONTELEONE
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REFUGEE stati d'esilio|epifanie
di Isabella Bordoni
Refugee è il progetto 2011-2014 di Isabella Bordoni che affronta, anche attraverso soggiorni in ambienti naturali o urbani, con giornate di viaggio, cammino e riflessione, i concetti di “patria” e di “cittadinanza”, le pratiche dell'amicizia come forma civile.Ci interessa capire del “rifugio” come spazio fisico, e del "rifugiato" come condizione, le implicazioni di senso che vanno dal politico al poetico, dall'essere luogo e atto di resistenza e di ri-esistenza, a luogo del riparo a quello dell’esilio, tra scenari della lontananza, nomadismo e approdi. Tra paesaggio e tempo anche le pratiche e le politiche del lavoro materiale e immateriale. Nell'agosto 2012, RIFUGI ha avuto una sezione di lavoro e cammino in Alta Val Susa, facendo base in un rifugio a quota 2035 metri, guardando ai confini nazionali le resistenze di ieri e di oggi tra montagna e mare. Con Isabella Bordoni, Antonio Cipriani (scrittore), Erika Lazzarino (antropologa), Luca Francesco Garibaldo (architetto), Luca Berardi (video), Davide Dutto (fotografo), Maria Nadotti (scrittrice), per condividere, ascoltare, guardare e restituire nel tempo un discorso di immagini e parole. Da questa sezione di REFUGEE stati d'esilio|epifanie un primo libro d’artista prende corpo nella primavera 2012, con il titolo “REFUGEE|ARCHIVIO1”, stampato in linotipia, contiene testi, fotografie, mappe, video. Il video di Luca Berardi ne è parte. Per ulteriori informazioni su progetto e libro d’artista: Isabella Bordoni – isabella.bordoni@tin.it
Il progetto Refugee è stato raccontato su Pad Pad Revolution, nella pagina facebook di Isabella Bordoni e nel sito internet di ib-arts.
Rimando il lettore alle fonti originarie. Qui ho raccolto per comodità una buona parte degli interventi.
Progetto in movimento lungo l'arco alpino, dalla Val Susa a breve alla Val Varaita. Uno scritto bello e importante di Isabella Bordoni.
Lettera inviata il 7 luglio a Antonio Cipriani (scrittore e giornalista), Maria Nadotti (scrittrice), Erika Lazzarino (antropologa), Luca Francesco Garibaldo (architetto). Davide Dutto (fotografo) era già stato con me in un primo viaggio di orientamento a fine giugno e con lui ci siamo rincontrati in rifugio a fine agosto. In itinere si sono aggregati, graditi e preziosi, Valentina Montisci (giornalista) e Luca Berardi (amico, videomaker).
Il viaggio. Rifugi
Il progetto REFUGEE con la sezione Rifugi prende forma lì dove sempre era stato, in viaggio intorno alla parola. Questo è l'ARCHIVIO 1.
A vent'anni la vita è oltre il ponte di Antonio Cipriani
Riflessioni politiche e poetiche sulla Resistenza e sui passi di Refugee, sezione Rifugi, tra Carnino, Ormea e Upega. Luoghi che hanno fatto la storia della nostra libertà.
Luca Giunti, guardiaparco e attivista, parla del movimento No Tav
[Refugée, nella parte del progetto che affronta Rifugi]. Incontro con Luca Giunti, guardiaparco e attivista dei No Tav. Breve testimonianza video.
Refugee / Archivio 1. Il libro d'artista
REFUGEE Stati d'esilio / Epifanie [2011-2014] ARCHIVIO 1 (di Isabella Bordoni). Si chiama così ed è pronto per essere aperto, guardato, sfogliato, collezionato.
Articolo originario su Pad Pad revolution
Sur Refugee|RIFUGI, encore. -- Progetto in movimento lungo l'arco alpino, dalla Val Susa a breve alla Val Varaita.
di Isabella Bordoni
Domenica 4 /lunedì 5 settembre, in partenza per Parigi.
Sto imparando il morire. Lento, intermittente, ininterrotto, da quasi cinquant'anni mi avvicino al suo centro esatto. Quel centro l'ho eluso, combattuto, allontanato, corteggiato, incompreso, intrapreso, contagiato - come è giusto, necessario e vitale fare, nella complessità di ogni vivente. Ma sempre nel tempo fin dall'infanzia le innumerevoli morti, le morti dell'"altro" mi hanno insegnato la mia e, insieme, mi hanno insegnato la vita. E da quelle ho imparato l'annuncio, il presagio, come l'anticipazione di un mondo a cui c'è poco da aggiungere. Ma dove quel poco, va aggiunto.
Con REFUGEE mi sono data un orizzonte grande e il compito del poco. REFUGEE non nasce dallo scandalo ma dalla consapevolezza, e quindi la necessità di fare del cucito un'arte. Con REFUGEE resto lontana da parole come "trasgressione" così spesso usata anche in arte, perlopiù parole utili a muovere una propaganda contro un'altra, un consenso contro un altro, una convenzione contro un'altra, un vittimismo contro un altro o un trionfalismo contro un altro. Qui si coltivano invece parole che escono dal circuito dell'antagonismo per comporre piattaforme articolate, complesse, sdrucciole, per niente rassicuranti ma solidali, e che a quel compito del poco non rinunciano e tendono. Alcune di loro sono: resistenza, cittadinanza, patria, popolo, stati d'esilio, epifanie, date non come assunto ma come trampolino, patrimonio di criticità.
Del cucito, un'arte - dicevo. La vita è arte del "rammendo di carne e spirito" - ho scritto qualche anno fa, quando era intesa - quell'arte sartoriale - come eredità in lingua materna e attitudine individuale. Ma oggi, poiché e quando intesa quell'arte come pratica civile, direi piuttosto che quel cucire è una tessitura corale, l'organizzazione sentimentale di una comune responsabilità, un "fare insieme" - per quella teoria degli insiemi che contempla nei singoli elementi la loro possibilità, appunto, di aggregazione - . Dunque un "fare insieme" tra due orizzonti, quello politico e quello poetico, dell'esistenza.
"[...] muore spontaneamente la vita senza scandalo ne' riparo / Morte nell'istante del tempo / C'è una porzione di mare, lo so, dove l'acqua è buona da bere / dove il cuore galleggia / dove l'anima esulta. Vita / si chiamava lo spazio tra la corazza ed il cuore / Si chiamava / Vita. Nemmeno io ti ho salvata [...]" ho scritto. Una volta. Ma se non posso tacere in me la morte, neppure posso tacere la vita. Sua radice, sua trama. REFUGEE nasce allora da una necessità potente che si fa desiderio, di non tacere la vita.
REFUGEE nasce dal mare, attraversa il paesaggio e cerca la montagna. REFUGEE nasce perché un giorno, nelle colline del Montefeltro, ho di nuovo incontrato la luce di Piero della Francesca, e un giorno, al Künstlerische Museum di Vienna, ho di nuovo incontrato la Madonna del Prato di Raffaello Sanzio; con loro ho nuovamente compreso la sintesi dei due orizzonti, il politico e il poetico, la polis e il cielo, un luogo giusto per vivere e un luogo giusto per morire. Mi sono chiesta c'è quel luogo? e qual'è? Mi sono chiesta se il corpo non sia già quel luogo. E se il corpo possa esserci paesaggio, casa, dimora rifugio. E se il paesaggio possa disegnare intorno a noi - con noi - per noi, statuti di libertà. Libertà anche dal nostro principio e del nostro finire. E se possa, questa "libertà" essere la condizione prima che il paesaggio chiede. Se quel "fare insieme" tra orizzonte politico e orizzonte poetico dell'esistenza, non trovi un suo omologo nel "fare libertà" di corpo e paesaggio. Mi sono chiesta se nella luce prospettica di Piero dove c'è l'invito a entrare, e nella linea dell'orizzonte con cui Raffaello mi incanta, non ci sia già la geometria, l'architettura umana e non umana di un luogo che è rifugio, di uno sguardo che è vedere, di un vedere che è riparo, di un riparo che è ascolto.
Mi sono chiesta. Cioè ho chiesto conto di me. Ho chiesto a me stessa di esserci. Ho chiesto il coraggio di rischiare ancora, un po' di più, un po' più a fondo...e succedeva così profondamente e così serenamente in un momento in cui sentivo il mio corpo (mio paesaggio, mia contrada, mia condanna, mio presagio, mia libertà) venir meno a se' stesso. Ho visto l'insieme. Ho visto l'insieme di corpi come il mio finire annegati nell'acqua che è mare, o morti di fame e di sete stare lì come una cosa, tra i miei due Mari. Nell'insieme ho visto l'uno e il nome. Mi sono chiesta la responsabilità di vedere e di nominare. Ho cercato tra quei nomi anche il mio. Ho cercato "un insieme" anche per me.
Amici di mare raccontano che i pescatori del Mediterraneo e dell'Adriatico che si trovano sulla rotta dei cadaveri dei profughi o dei corpi non ancora morti ma agonizzanti, fanno finta di non vedere perché - dicono - sarebbero fuorilegge se prestassero soccorso).
Antonio mi ha chiamata una sera calda di giugno, imbruniva appena. Quando abbiamo chiuso la conversazione la sezione RIFUGI di REFUGEE a cui davo in quei giorni forma e concretezza decidendone il punto di partenza in Alta Val Susa, si era messa spontaneamente in cammino in questo "insieme". Tra pratiche e metafore, è iniziato così il contarci tra noi intorno al "viaggio" e al "cammino" che dalla costa adriatica - da un mare porta d'Oriente e di rivolte - cercava la veduta di Alpi e Oltralpe. Da una Resistenza a un'altra. Il 7 luglio scrissi una lettera a 4 persone. Aggiungo la lettera in fondo a queste riflessioni. Ma il nome del Rifugio rimase pubblicamente ignoto anche a progetto avviato, fino a fine agosto, perché non era nella spettacolarità il senso del progetto, ma nel suo fare "ricerca".
Insieme a sistemi totalitari che si sbriciolano, altri se ne edificano. Sistemi coloniali si sostituiscono tra loro. Da anni mi chiedo cosa può fare l'arte? Cosa posso fare io? Mi appoggio qui alle parole di John Berger, esse non sono risposta ma stimolo. "Non posso dirti quello che l'arte fa e come lo fa, ma so che spesso l'arte processa i giudici, chiede vendetta per l'innocente e proietta verso il futuro quello che ha subito il passato, in modo che non sia mai dimenticato. So anche che il potente teme l'arte in ognuna delle sue forme, ed a volte questa arte passa tra la gente come una diceria e una leggenda perché dà senso a ciò che la brutalità della vita non riesce a dare, un senso che ci unifica, perché alla fine è inseparabile dalla giustizia. L'arte, quando funziona così, diventa il luogo di incontro dell'invisibile, dell'irriducibile, durevole, il valore e l'onore". REFUGEE mi dice che a quei mari occorre guardare. Con la responsabilità civile. Con l'arte. Di più. REFUGEE mi dice che con uguale responsabilità civile occorre fare appello all'arte per creare nuove economie. Sovvertire le gerarchie esterne e interne dei modelli di produzione della produttività e del lavoro, mischiare, confrontare, innestare tra loro le pratiche del lavoro materiale con quelle del lavoro immateriale. Così è come ho scelto di muovermi in questa sezione di REFUGEE che si chiama RIFUGI, scegliendo come luogo di visione, di osservazione e di ascolto, l'Alta Val Susa. Un punto in alto dal quale partire per muoversi da una Resistenza a un'altra. Da una Resistenza a tante altre.
Ho imparato il servizio ai tavoli, la pulizia delle stanze e dei bagni, il lavoro alla lavapiatti, al bar. Mi sono massacrata le mani. Miei sistemi di equilibrio hanno barcollato. La fatica mi ha resa vulnerabile, intimamente ricattabile da quel meccanismo perverso che - a volte? spesso? - sottende la produzione: compiacere chi ti da gli ordini. Sono entrata e uscita - osservandola e patendola, poi osservandola e dibattendola - dalla catechesi del lavoro. Forse non ho inciso sugli altri, di certo ho inciso su me. Oggi, mentre le mani tornano mani, assegnato loro il compito che più gli appartiene che è quello di scrivere, mentre si rimarginano le ferite dei coltelli, delle reti, dei lavandini, delle parole e degli ordini, mentre ancora so che è la sfera affettiva quella che sempre sorregge e salva, ecco, io credo che quella fatica del corpo e della mente sia stata veramente la strada giusta. Forse non "la più giusta", ma "una tra le possibili giuste", giusta perché imbarazzante e scabrosa, perché vera. Da questa verità non intendo prescindere ora, perché nel "chiedermi a me stessa", io da "questa" verità sono passata e lì si è composto l'"insieme".
Se nuove economie vogliamo davvero praticare, occorre conoscere il meccanismo - anche piccolo - di quelle vecchie. Perché non è rimandabile e per me è ora il tempo in cui qualche cosa di nuovo (o di antico) si compie.
"Qualcuno, da qualche parte, ha segnalato che i crimini contro gli innocenti racchiudono una triplice ingiustizia: quella della morte, quella della colpa e quella dell'oblio. [...] Il sistema che subiamo si prende cura, conserva e coltiva il nome e la storia dell'assassino, sia per la sua condanna, sia per la sua glorificazione. Ma il nome e la storia delle vittime restano dietro. Le vittime vengono uccise un'altra volta quando sono condannate a diventare un numero, una statistica. Molte volte nemmeno questo. [Nelle guerre che si impongono] senza distinzione di classe sociale, razza, credo, genere o ideologia politica, si aggiunge un ulteriore sofferenza: quella di etichettare le vittime innocenti come criminali."
Quando ho elaborato il progetto REFUGEE nella sua scansione temporale di un triennio e oltre, le varie tematiche e tappe, volevo dire questo: volevo ristabilire l'innocenza degli uccisi. Perché non posso tacere la vita. E perché ogni ucciso è innocente. Ricomponevo allora le fila della mia formazione che da Jabés - con cui avevo attraversato deserto e libro - mi riportava agli amori fondamentali che portano i nomi, tra gli altri, di Marina Cvetaeva, Walter Benjamin... amori ininterrotti dall'adolescenza fino ai padri (e biograficamente lo sono perché entrambi hanno l'età di mio padre) Michel Butor, John Berger, che invece sono amori della mia maturità. Lungo una biografia - la mia - della quale io ho sempre sofferto le interruzioni, ma dove oggi invece so che nulla si è davvero interrotto ma ha solo trovato un suo passo e un suo cammino.
"Poesia ininterrotta" chiama Paul Eluard quel canto, quella carezza sopra le ferite tutte della vita. Marina Cvetaeva è tremenda, rivoluzionaria, inquieta e io l'amo oggi diversamente ma tanto quanto quel primo giorno che dallo scaffale di una libreria mi prese con sé. Avevo venti anni e mi sembrava tardi. Mai nessuno mi aveva fino ad allora parlato come lei. Certe scritture sono sepali. Non petali ma sepali, come mi ricorderà Bruno su al Rifugio Gimont, perché si chiamano sepali quelle parti del fiore che sono petalo, corolla e foglia. E infatti certe scritture non hanno, del petalo, la leggerezza, piuttosto esse sono struttura e composizione. Come certe vite.
Il tempo in cui mi consegnavo a REFUGEE era il tempo in cui ancora non lo si diceva, ma già si decomponevano altre trame fragili e malate del mondo. Era l'autunno di un anno fa e da lì a pochi mesi la rivolta del pane in Tunisia sarebbe diventata cronaca. Lo stato italiano avrebbe poi rinnegato l'alleanza coi dittatori e la vergogna sarebbe stata il segno conclamato di una malattia nazionale. Il crollo di assetti economici e politici mondiali avrebbe contagiato di rivolta i due Mari e dalle coste del Nord Africa si sarebbero riversati sul Mediterraneo e sull'Adriatico innumerevoli corpi e linguaggi. La parola "rifugiato" avrebbe riempito molti giornali e qualche coscienza, nell'abisso giuridico tra "clandestino" e "profugo". REFUGEE aveva già tracciato sistemi di relazione. Li aveva tracciati come si traccia una mappa, per lasciare poi al cartografo, al camminatore, al pellegrino, all'esule, al profugo, al sopravvissuto, al fuggiasco, al poeta, il compito della verifica. Di quella mappa erano chiare le relazioni: non tacere la vita. "Adesso", "Luogo Eventuale|indagine sul paesaggio", "Progetto Rifugi", "Progetto Mulini", "Dare Pane" i suoi emblemi.
REFUGEE non nasce dallo scandalo del morire ma dallo scandalo di morti per fame, violenza, guerra. REFUGEE non nasce dallo scandalo del corpo perché morente, ma del corpo che muore innocente, in acque e terre che l'hanno stregato e illuso. La sua sezione RIFUGI ha cercato e cerca nella montagna i sentieri per percorrere le politiche e le poetiche di amicizia e di resistenza o anche, semplicemente, della "differenza".
Intanto accade che pochi giorni prima di partire per l'Alta Val Susa, mi ritrovi tra le mani due fotografie di cui avevo perso memoria. Dal magnifico libro-catalogo "Paul Strand. Un American Vision" del 1990, che torno a guardare di tanto in tanto, escono due riproduzioni fotografiche di cui una è una fotografia scattata nel Montefeltro. Così, come terre dotate di movimento proprio, un altro frammento si avvicina agli altri frammenti di questo REFUGEE, cerca approdi, cerca il suo "insieme". Un fotografo americano giunge a metà Novecento vicino a casa mia e nel 1952 scatta una fotografia straordinaria di quel paesaggio dove per me ha inizio il nomadismo nel quale affondo. Un'incisione di luce e ombra mi riconsegna le colline di sessant'anni fa e mi racconta un'altra storia e un altro Rinascimento. Cos'è il tempo?
Sono felice, per la chiarezza e la complessità della mappa, delle relazioni, degli affetti.
Una volta di più capisco che "non importa la strada né la velocità del passo. Quello che importa è la verità che questo passo porta con sé".
Articolo originario uscito su Pad Pad revolution il 6 settembre 2011
La lettera di Isabella
Lettera inviata il 7 luglio a Antonio Cipriani (scrittore e giornalista), Maria Nadotti (scrittrice), Erika Lazzarino (antropologa), Luca Francesco Garibaldo (architetto). Davide Dutto (fotografo) era già stato con me in un primo viaggio di orientamento a fine giugno e con lui ci siamo rincontrati in rifugio a fine agosto. Lo sguardo di Davide ha aperto e chiuso (provvisoriamente) il mio periodo di permanenza in questa prima fase del progetto. In itinere si sono aggregati, graditi e preziosi, Valentina Montisci (giornalista) e Luca Berardi (amico, scalatore). Maria Nadotti non è salita al rifugio, con lei permane lo scambio di pensieri intorno ai concetti di patria e di reclusione relativi soprattutto ai territori occupati nella striscia di Gaza.
da isabella - rifugio
Da: Isabella Bordoni
Data: 07 luglio 2011 00.16.18 GMT+02.00
Cari Maria, Antonio, Erika, Luca,
non vi conoscete ancora tra voi, ma mi rivolgo con una mail comune. L'idea di rendervi partecipi come vi spiegherò di questo progetto mi è venuta alcune settimane fa e la sto capendo anch'io poco a poco. Mi aiuterete anche voi a migliorarla, intanto la espongo poi prenderemo la misura. Mi muove il desiderio di sperimentare quanto di quella "mappa affettiva" che è condizione di vita e di lavoro alla quale presto fede da tempo, è possibile qui; se ci sono e quali i nuovi (o antichi) spazi e tempi di relazione tra arte e comunità, di reciprocità e "amicizia". Questa mail vi raggiunge tutti, un "tutti" fatto di poche persone scelte per il "ciascuna" che ciascuna è.
Nel gennaio 2011 ho avviato il progetto "REFUGEE|Stati d'esilio. Epifanie". L'inizio è avvenuto in un luogo d'affezione (lo spazio di Ilaria Drago e Marco Guidi, a Vejano-Vt), luogo e persone reciprocamente scelti per dire che con l'anno si apriva un itinerario che sapevo essere lungo e complesso, anticipazione e conseguenza di altro lavoro e di altra vita.
Su REFUGEE, per chi di voi non lo conosce, dico rapidamente che si compone di tappe che si chiamano LUOGO EVENTUALE, ADESSO, PROGETTO RIFUGI, PROGETTO MULINI, DARE PANE, che non si svolgono lungo un tempo lineare ma si intrecciano e sovrappongono. Si tratta di eventi, libri, incontri, installazioni. Se lo desiderate posso spedirvi il file che lo racconta. Avviato nel 2011 si conclude nel 2013 (o 2014).
Sul filo rosso di REFUGEE corre la mia riflessione intorno al concetto di patria.
Su questa riflessione, metto in prova con voi uno spazio e un tempo corali, dove alcune soggettività si toccano.
Per questo progetto e per questa sua parte che è PROGETTO RIFUGI avevo fino a poco tempo fa sperato di muovermi in maniera più protetta, con un (benché) piccolo budget di sostegno. Così non è. Le istituzioni alle quali l'ho chiesto mi hanno risposto con attestati di stima e senza denaro.
So, sappiamo, che c'è stima e stima. C'è una stima che è attribuzione di valore monetario e economico, e c'è una stima che è attribuzione di valore intellettuale, forse anche morale. Questa seconda stima è gratis. Ho riflettuto su questa seconda stima. Sulla "gratuità" della "stima", perché per quanto disonesta o derisoria o punitiva quando usata da certe istituzioni e in certe maniere, trovo tuttavia che essa sia in se' stessa, sana.
Voglio allora stare con questo piccolo progetto, sul lato minore dell'economia, dove il lavoro è piacere e dove la stima è gratis.
Trovo sia corretta una gratuità della stima perché ci sono azioni, tendenze, opere, che non acquisiscono necessariamente il loro "valore" nel denaro e la cui validità non risiede nel loro "commercio". Ho pensato poi che non volevo rinunciare al progetto per via del denaro, dunque ho cercato un'altra strada che stesse in quella traccia di "gratuità della stima" che mi si è im-posta come necessità pratica e opportunità di un nuovo pensiero. Pensandolo così il progetto è cambiato drasticamente: voleva essere un viaggio nei rifugi alpini e invece è un solo rifugio che chiama a molti viaggi. Voleva trovare un aiuto produttivo, e invece ha trovato una formula di auto-produzione decisamente più stimolante. Questa formula l'ho trovata incontrando anche qui un luogo e delle persone e arriva sulla scia di alcuni miei progetti che vi si legano spontaneamente, come ad esempio il recente "Bergamo Archive" che indagava attraverso gli archivi storici d'impresa e di sindacato, il mondo del lavoro. Anche nelle retoriche discorsive della "patria" e del "lavoro" si innesta dunque questo mio andare verso il Rifugio.
Perché nell'andare e nel tornare verso e dal rifugio - dentro e fuori la riflessione intorno al concetto di "patria", di "territorio", di "corpo"e di "paesaggio" come luogo dell'utopia e de|territorializzazione - una volta arrivata in quel rifugio io lavorerò lì per un periodo di agosto, e farò il lavoro che serve fare in un rifugio alpino, ovvero collaborare alla sua gestione per l'accoglienza e l'ospitalità dei passanti, dare da mangiare, da dormire, sistemare il luogo per coloro che vi transitano. In questa maniera il guadagno derivato dal lavoro "materiale" in rifugio andrà a sostenere il mio lavoro "immateriale" sul rifugio.
IL LUOGO
Il luogo che mi ha scelta è un rifugio a circa un'ora di cammino da Claviere, nell'alta Val Susa, vicino al cuore dei cantieri Tav, le persone sono Bruno e Marco. Poco più di una settimana fa sono andata a conoscere le persone e il luogo: il Rifugio Baita Gimont. Il percorso (con i mezzi pubblici) prevede per me due viaggi in treno: Rimini-Torino (in alternativa Rimini-Milano-Torino) e Torino-Oulx; un viaggio in pullman: Oulx-Claviere; un tratto a piedi per passare dai 1.760 mt di altitudine di Claviere ai 2.035 mt di altitudine del Rifugio. In alternativa se fatto in auto, il percorso si semplifica parecchio, si arriva in auto fino a Claviere e da lì a piedi. Cammino molto e volentieri ma difficoltà temporanee di questa macchina-corpo mi hanno resa meno baldanzosa sulle mie risorse fisiche, che credevo inesauribili. Questo riconoscersi deboli chiede un percorso di accettazione interessante, un rapporto di onestà tra se' e la fatica. Benché annunciatomi come un percorso tecnicamente semplice, nella parte a piedi mi aspettavo quindi un tragitto per me comunque complesso. Il percorso in verità è piacevolissimo, si possono fare soste all'ombra nel bosco, il paesaggio che ho incontrato a fine giugno è verdeggiante, una ricca nervatura d'acqua da respiro alla terra. Ma l'insieme del viaggio, quello sì mi è risultato stancante.
Qui siamo alla frontiera con la Francia. Sulla via Francigena, nell'Alta Val Susa, Comunità montana di Exilless...per me molte cose insieme, testi, sotto-testi, implicazioni che mi chiedono di "indagare" e "conoscere"... Scopro poi che a Exilles c'è un Forte, uno dei monumenti più antichi della Valle Susa, forte militare, castello di strada e di confine, fortezza e rifugio per una guerra di montagna. E allora penso che sono arrivata qui anche per questo, cercando nel rifugio l'essenza del suo nome, sapendolo già - rifugio - per una montagna che in guerra oggi è perché della terra si fa commercio e speculazione. Qui sulla via del rifugio Gimont siamo in una montagna in un certo senso "semplice", perfino retorica nella sua bellezza immediata, è una montagna che in estate non è agonistica, ma competitiva lo diventa in inverno, innervata com'è di piste da sci e impianti di risalita. Bella nonostante alcuni segni macroscopici di interventi umani, è una montagna che lotta se occupa i cantieri della Tav e blocca le autostrade, e che è concentrata sul profitto se camminando nelle vie di Oulx il giorno delle proteste dei no-Tav si sente ripetere l'adagio di tutti i luoghi comuni che chiama gli occupanti "vagabondi"; ed è confine di territori geografici e identitari, linguistici, perché ogni montagna lo è, identitaria, localista, pur nella sua possibilità ad essere punta di mondo, universo de-territorializzato.
Non territorio ma Mondo. Appunto. Ma questa montagna che io desidero Mondo, è anche e ancora e ostinatamente Territorio, la cui forma si esprime nei localismi, nei micro-sistemi di arroganze, nelle diffidenze quotidiane. Ecco, io questo posto l'ho incontrato per caso e nel caso mi ha accolta. E' accaduto perché ci siamo riconosciuti tra stranieri.
Straniera io in questa montagna, e stranieri loro, Bruno e Marco, che gestiscono da due anni il Rifugio arrivando nel Piemonte Occitano da un'altra montagna, quella Ligure. Qui c'è un risvolto, una piega, una comune estraneità che ci affratella e che mi sprona a camminare e a vedere. Perché per me da sempre c'è nel camminare e nel vedere, il Luogo. Luogo non chiamato patria, comunità non chiamata popolo, ma rapporto tra unicità di corpi e di paesaggi, dove ogni cosa è singola e plurale.
HO SCELTO VOI
Per fare discorso. Perché questa parte del progetto mi esorta alla condivisione. Vorrei invitarvi al camminare e al vedere insieme, tenendo aperte le riflessioni che ho accennato intorno al concetto di patria, rifugio, arte, comunità. Vorrei camminare insieme in una forma di mutuo sostegno che pertiene l'amicizia. Vi chiedo di "accompagnarmi" e nel camminare e nel vedere, scambiarci il dono dell'esserci. (Hannah Arendt chiama "amicizia" non il fatto intimo ma il fatto politico del creare discorso tra gli uomini. Si veda anche ad esempio il magnifico "L'umanità in tempi bui" che ho e che vi presto volentieri) Siete Maria Nadotti, Antonio Cipriani, Erika Lazzarino, Luca Francesco Garibaldo.
Con Maria, nel cercarla in un tempo e ritrovarla già in un altro, mi ha resa felice il suo conoscermi "da prima", il suo sapermi innervata di ricerca e scena, il suo avermi vista a Linz (era il 1997?) in "Scannig Bacchae" che ricordo spettacolo bello e anticipatore per quegli anni. Sono stata felice del suo riconoscermi come mai avrei saputo fare io, che tanto ho dimenticato. L'andare verso Maria è stato un ritorno. Un viaggio che per me è iniziato alla metà degli anni '80 e ha preso le strade di alcuni esili, di alcune epifanie. Con Antonio, nel nostro incontro lungo le tracce di Ilaria, mi ha fatta felice il suo non avermi mai conosciuta prima, il nostro incontrarci nell'"adesso" entrambi intrisi di una gioia perfino dolente, discreta, irriducibile, nell'avere attraversato mondi e per questo forse più consapevoli e ricettivi verso "l'altro" che ciascuno è.
Con Erika e Luca sento nella spontaneità che ci abita la bellezza di un incontro tra generazioni, cristallino e per me sapiente, bello. Vedo la comunità alla quale da sempre tendo e sempre da venire, vedo una comprensione profonda oltre le esperienze e gli anni. Vedo una generazione per me tra le più belle, i trentenni che oggi fanno il mondo.
La città che ci accomuna è Milano, ma tutti noi conteniamo le istanze del viaggio, la distanza, il nomadare e il darsi luogo. I nostri luoghi natali sono stati spesso allontanati, il nostro cammino ci ha già condotti in Europa, Asia per qualcuno, per altri Africa o Americhe.
COME
Questo è un invito e come ogni invito, si può declinare :)
Di nessuno di voi infatti conosco i programmi estivi, se in agosto ci sarete o non ci sarete, se il progetto vi piace o non vi piace. Di Luca e Erika so che sono camminatori, di Maria e Antonio non so, ma comunque sia questo non è un problema perché il cammino che intendo fare accoglie la debolezza (la mia in primo luogo) e non ha fretta.
Per chi ci sarà, per chi potrà e vorrà, ci daremo come punto di incontro Milano o, viceversa il Rifugio. Si potrà trattare dunque di percorsi di andata e/o di ritorno.
Arrivati al Rifugio io resto perché mi fermerò per il mio periodo di lavoro, voi potete o ripartire, o fermarvi.
Per chi vorrà fermarsi in rifugio, l'accordo con i gestori Bruno e Marco è che i miei amici avranno un trattamento d'amicizia (costi ridotti) e allora chi resta mi vedrà nella versione "rifugista".
Alla fine e durante lo stesso periodo io sarò su per qualche giorno e sarò a mia volta loro ospite, perché il "lavoro nel lavoro" mi chiederà tempo. Per scrivere, guardare, ascoltare.
A voi, chiedo con la condivisione del cammino, un dono. Sarà il dono della "corrispondenza".
Vi chiederò di inviarmi un vostro scritto, o un'immagine, o un suono o qualsiasi altra riflessione rientri in quel ventaglio di parole dette prima, filtrate dall'esperienza del viaggio e del cammino insieme.
Alla fine realizzeremo un libro. Sarà un libro in tiratura limitata, un cosiddetto "libro d'artista" e avrà un suo primo luogo e momento pubblico all'interno di una mostra di libri d'artista che sto pensando per l'inverno 2012.
Questo il mio calendario di arrivi e partenze a/da Rifugio Baita Gimont: Parto da Rimini venerdì 5 agosto per essere operativa in rifugio dalle ore 8 di sabato 6 agosto. Lavoro sabato 6 e domenica 7, scendo lunedì 8 agosto. Il viaggio insieme può essere quello del 5 o del 9 o entrambi.
Parto da Rimini venerdì 12 agosto per essere operativa in rifugio dalle ore 8 di sabato 13 agosto. Rimango su da sabato 13 a domenica 21 agosto, scendo lunedì 22 agosto. Il viaggio insieme può essere quello del 12 o del 22 o entrambi. Parto da Rimini venerdì 26 agosto per essere operativa in rifugio dalle ore 8 di sabato 27 agosto. Lavoro sabato 27 e domenica 28. Non so esattamente quando scenderò. Il viaggio insieme può essere quello del 26 o del ritorno o entrambi.
Nel pensarvi al corrente e coinvolti in questo cammino di osservazione, vi penso singolarmente e insieme.
Ma il viaggio è un' iniziativa personale e può essere fatto uno a uno, o in più d'uno o tutti insieme, in base a come si vorrà o si potrà fare.
Ecco. Mi direte.
Un abbraccio, Isabella
Il viaggio
Articolo originario pubblicato su Pad Pad revolution il 2 settembre 2011
Tutti i testi sono di Isabella Bordoni, pubblicati nei diversi giorni sulla sua pagina d'artista, vi invito a visitarla.
Clicca qui: Isabella Bordoni I Progetto per le arti
Mercoledì 3 agosto.
Un viaggio con mezzi pubblici e lenti. Si parte dalla collina riminese il 3 agosto, autobus numero 7 fino in stazione e treno regionale per fare tappa a Milano la sera. All'alba del giorno dopo, la corsa delle 4.00 della circolare 91 di Milano si fa attendere a lungo ed è impaziente il ragazzo che dovrà iniziare a scaricare le merci alle 4.30. Nonostante l'attesa, la circolare mi porta da Viale Molise a Stazione Centrale in un tempo più breve del previsto ma l'attesa del treno delle 5.15 è comunque breve. Mi vedo al rallentatore sbagliare più volte il meccanismo dei tasti alla biglietteria automatica. Nella quiete del mio errore so cos'è quella postura sbilenca dei sensi. Salgo. Il regionale per Torino porta a casa giovani donne africane con il loro carico di abiti di scena. Nelle sporte portate a tracolla il costume della notte e addosso maglietta, scarpe basse e molta stanchezza. Nonostante la stanchezza amano chiacchierare e a un certo punto una di loro intona una canzone che sembra una leggenda, una cura. Un'altra voce fa da contrappunto e le altre fanno coro, pianissimo. Piango. Il treno è maleodorante e sporco. Mi vergogno di un treno così sporco a far da culla a quello splendore. Si arriva a Torino alle 7.10, siamo quasi solo donne. A Torino Porta Nuova chiedo indicazioni a un taxi per la stazione dei pullman. L'autista, donna, dice che può accompagnarmi lei in tre minuti. Sta per piovere. Ringrazio, dico che vorrei andarci a piedi. Cammino sotto ai portici di Torino con uno zaino in spalla e uno sul petto e quando terminano i portici inizia la pioggia. Battente, calda, bellissima. Ci vado in mezzo. Non è necessario capire. Mi stordisce una dolcezza lenta, l'angoscia sotto forma di canzone. Il 131 di Viale Vittorio Emanuele si raggiunge in un quarto d'ora a piedi, c'è tempo per la colazione, il giornale, i biglietti del pullman. Si parte alle 8.25 e da lì a breve sarà montagna. Si attraversa la Val Susa passando da Rivoli, Avigliana, Sant'Antonino, Bussoleno, Susa, Gravere, Chiomonte, Exilles, Oulx, Cesana. Si raggiunge Claviere alle 11.15 nell'intarsio di un viaggio che è un canone di fatiche. Da lì si prosegue a piedi. In poco meno di un'ora di cammino che per me, il 4 agosto, sono quasi due. Questo corpo, che porta con se' il compito di dare accadimento alla vita. Questo corpo venduto e comprato, questo corpo inciso e datato nello spartito di incendi e trame. Eccomi a te, mia carcassa, mia gloria. Da qui, vorrò trovare le parole per dire la felicità, la spaccatura, il conflitto, il conformismo, il consenso, la retorica, la bellezza, la presenza finita e l'infinita assenza di noi e di mondo. Grazie corpo. Grazie mondo.
Martedì 9 agosto.
Treni regionali, pullman, piedi. La salita in montagna fa guardare al mare e oltre. Mi hanno fino a qui accompagnata tre libri: "Welcome to Lampedusa 2011. Isola di permanenza temporanea", raccolta di testi scritti a caldo come sonda dentro agli sbarchi di donne e uomini migranti attraverso il Mediterraneo; "Gli asini 5-6" bimestrale di educazione e intervento sociale; "Bartleby lo scrivano" nella traduzione a cura di Gianni Celati. Poi passo dopo passo soprattutto in ascolto, per cercare nella scabrosità del reale la possibilità di un insieme fluido dei gesti, di una pietas umana, civile, corale. Tra Arendt e Melville, tra vita activa e rifiuto dell'azione, tra due sponde sovversive cercare gli spazi e i modi della libertà come bene supremo. Da giovedì con me Antonio Cipriani e Michel Foucault, per pensare il corpo (il suo essere, il suo finire) come luogo dell'utopia.
Venerdì 12 agosto.
Dopo un viaggio che per Antonio partiva dalla Sardegna e poi con Isabella da Rimini su mezzi lenti e a volte di fortuna, il 12 agosto abbiamo passato a Montgenèvre il confine con la Francia. A Briançon dentro la città fortificata seduti sulla pietra del numero 7 di Rue de Castres, abbiamo spedito a noi e agli altri membri del progetto una busta contenente ciascuna documenti diversi, ma tutti relativi ai viaggi che erano stati fin lì effettuati per questo "REFUGEE|Rifugi". Con la busta, a ciascuno di noi è arrivata la richiesta di conservarla e rispedirla con i materiali che ciascuno avrà elaborato da questa esperienza. Questo materiale ci guiderà nella realizzazione del libro d'artista che realizzeremo nei prossimi mesi addizionando nel molto o nel poco, riflessioni e spunti critici fatti di emozioni e ragionamenti. Su queste montagne torneremo e contemporaneamente ci sposteremo a settembre nella Val Varaita. In Val Varaita per la prima volta i membri del progetto si incontreranno tutti tra loro. Qui la rete si farà "comunità". Perché l'arrivo sia un "benvenuto" e la partenza sia un "arrivederci".
Mercoledì 31 agosto ore 12 e 31.
Negli ultimi anni poche esperienze mi hanno segnata (nel senso proprio di "incisa", "scritta"...) così a fondo come questa. Intendo "questa" nel suo insieme come progetto "Rifugi" e nello specifico la scalata dello Chaberton, una vetta di 3.130 metri alla quale io ho rinunciato a quota 2.760. Scalare lo Chaberton nelle mie condizioni fisiche di quei giorni, sotto antibiotico, antinfiammatori e antidolorifici, poteva essere persino un'imprudenza ma l'averlo fatto con Antonio, Valentina, Luca, è stato guardare insieme la possibilità e il limite, la solidarietà che pertiene l'"amicizia", quel senso di bene comune dove la fatica dell'uno è la fatica dell'altro e dove la vetta dell'uno è la vetta di tutti. Quest'amicizia di segno politico che ci insegna Hannah Arendt, che si ridisegna nei luoghi solidali dei presidi no-tav, che si articola nelle reti affettive tra individui e poi tra persone e luoghi, tra corpi e paesaggi, è stato il raggiungimento più grande di questa sezione di progetto di montagna, ed è stato raggiunto "insieme". Da questo "insieme", che è politico perché è poetico, che è poetico perché è un canto comune anche quando è individuale e solitario, per noi che ci siamo convocati ad esserci risorge una consapevolezza antica e duratura.
Mercoledì 31 agosto ore 01 e 17.
Giuseppe è il pastore dal carattere gioviale, sorriso pronto sul viso, occhi generosi, una voce che raschia e ammalia nei racconti di una vita che da quarantadue anni lo vede nomade tra le montagne dell'Alta Val Susa e la piana di Pianezza. Giuseppe, detto Beppe, detto Pino (ma lui aggiunge altre cinque variazioni del suo nome, che io ora non ricordo) attraversa quotidianamente nei mesi estivi la Valle Gimont, per condurre al pascolo una mandria di cinquanta esemplari di mucche di razza Piemontese, animali come sculture, razza da carne pregiata il cui prezzo - ci dice - è notevolmente calato nell'ultimo anno per competere con il minor prezzo dei capi di provenienza francese, razza Limousine, ad esempio. Di tutte le cinquanta, solo una si lascia accarezzare. Ogni animale ha un nome, il suo è Mela.
Cinquanta vacche più un toro. Mandria e pastore - e accanto a lui il cane Rambo - li si vede passare di fianco al rifugio due volte al giorno; nel percorso di andata, dalla valle al monte, la mandria si abbevera ogni giorno prima di mezzogiorno al "lago Freddo", poi sale fino a 2.100, 2.150 metri dove sceglie tra l'erba del bosco quella più in ombra, più tenera e meno acida rispetto a quella delle aree paludose della valle, per poi ridiscendere a quota 1.800 nel pomeriggio.
Pianezza è una località che io e Davide vediamo indicata per la prima volta la mattina del 30 agosto, in autostrada, nell'unico viaggio di questo progetto che faccio a bordo di un'auto e che dal rifugio mi porta alla stazione Porta Nuova di Torino. Per Giuseppe, Pianezza invece è casa, famiglia, amici, ed è ancora lavoro, perché con la transumanza d'autunno a Pianezza, non lontano da casa, anche la mandria trova ricovero nei mesi invernali. Da lì in poi per me saranno ancora fino a sera zaini in spalla, treni regionali, panino e acqua acquistati nel bar fuori dal forte di Exilles, e l'accavallarsi di pensieri per i quali cercare e trovare nel tempo, carreggiate e componimento.
Lascio l'Alta Val Susa nelle circonferenze di abbracci e sono ancora circonferenze quei movimenti del pensiero che vedo disegnarsi nel viaggio - lento - del ritorno. Per Bruno e per Marco saranno ancora mesi di montagna tenace ma finalmente più intima e silenziosa, per Jessica sarà la giovinezza farsi nuovo racconto di vita, per Federico sarà quella sua intelligenza acuta cercare un'alleanza con l'altrettanto acuta sensibilità. Per Giuseppe sarà ancora per qualche settimana tempo di pascolo e incontri come il nostro, perché Giuseppe è persona generosa che attrae come una calamita persone curiose d'ascolto, lui che possiede con la magia del racconto l'intelligenza di un corpo snello e agile e bello. Settantaquattro anni i suoi.
Oggi è giornata di compleanni. Quarantanove per me da oggi gli anni di cammino, in questo viaggio che chiamiamo vita. Nella conta di numeri e giorni, oggi, mentre attraverso le stazioni di Asti, Alessandria, Voghera, Stradella, Castel San Giovanni, Piacenza e da qui tutte le stazioni fino al ritorno a casa, oggi lungo le linee alpine e appenniniche che presto saranno di nuovo costa e mare, oggi i pensieri ritrovano e uniscono puzzle di vita e di mondo che nel tempo io sono stata. Portano i nomi di colline, regioni, cime, donne e uomini che ho amato, infanzie, giovinezze, maturità che ricordo e che so, alle quali - a tutte e a ciascuna - dire "sì". "Dimmi solo di sì" scrive Marina Cvetaeva a Rainer Maria Rilke. Per me, in questa età, in questo tempo, innumerevoli "sì". "Sì" all'incontro che ha fatto di me, un giorno, una creatura umana, figlia e sorella; sì all'incontro che mi ha resa madre; sì al principio e sì alla fine; "sì" ogni volta che gli occhi sono stelle, alla fede incerta e cieca perché solo incerta e cieca può essere ogni fede; "sì" alle domande e alle risposte; sì" a tutte le intelligenze; "sì" alla ferita, "sì" al dubbio, al pianto, alla gioia, alla festa, all'abbandono, alla forma, al contorno, alla sostanza, al vaso, al coccio; "sì" al lascito, al di madre in figlia; sì" a ogni fierezza che umilmente abbraccia il mondo. E chiede. E rende. "Sì" ai bambini, "sì" all'infanzia, che tra tutte le età è la più eterna.
Guarda le foto di Davide Dutto
Isabella in viaggio da Rimini a Claviere
Sventola la bandiera della pace, quella di Libera e la bandiera occitana
Isabella in viaggio da Rimini a Claviere
Luca Berardi affonta la salita. Partenza alle 6 per non percorrere la pietraia sotto il sole battente.
Antonio ripreso da Valentina. Alle prime luci della giornata fa ancora freddo.
Valentina
Luca Berardi affonta la salita. Partenza alle 6 per non percorrere la pietraia sotto il sole battente.
A vent'anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l'amore
Riflessioni politiche e poetiche sulla Resistenza e sui passi di Refugee, sezione Rifugi, tra Carnino, Ormea e Upega. Luoghi che hanno fatto la storia della nostra libertà.
articolo di Antonio Cipriani pubblicato in Pad Pad revolution il 26 ottobre 2011
Poche cose come la Resistenza smuovono in me un sentimento nel contempo poetico e politico. Uomini e donne che si fecero avanti, lasciarono le case, le famiglie, gli affetti, scelsero di giocarsi la vita per un concetto che oggi appare quasi astratto, quello della libertà. Erano ragazzi, avevano l'età dei nostri figli. Impugnarono armi, salirono in montagna, cercarono luogo e rifugio. Si fecero corpo di quella libertà negata. Scelsero la morte, a ogni passo, per poter vivere.
Camminando sulle strade di Refugee, alla ricerca di un rifugio, politico e poetico, con Isabella Bordoni e altri compagni di viaggio, siamo arrivati a Carnino, in quello spazio delle Alpi Marittine che sale dalla Liguria, vicino alla Francia. Abbiamo percorso le terre brigasche, oggi divise da un confine, ieri unite e occitane. E su quei sentieri abbiamo incontrato Briga, Upega, Ormea. Nomi di paesini, lungo il Tanaro, dentro il parco. Ma non solo, luoghi di sangue e resistenza. Di scelte estreme.
Upega, per esempio. Grigio e quasi sconsolato avvinghiato al costone di una montagna. Proprio a Upega finì l'esperienza della Libera Repubblica di Pigna. Una sfida alla quale il nazifascismo rispose con una delle azioni militari più violente e decise, bombardando per giorni Pigna e costringendo i partigiani della Divisione Garibaldi Felice Cascione al ripiegamento. L'ultimo comando della divisione e l'ultimo brandello della Libera Repubblica si trasferì a Upega. E lì fu attaccato di sorpresa il 17 ottobre. Venti morti e sei ragazzi catturati i giorni successivi e fucilati.
Avevano vent'anni, quei ragazzi.
Ci penso, scorrendo le immagini di quelle valli. E penso alla storia di Felice Cascione "u Megu" perché medico. Autore delle parole di Fischia il vento. Morto per la sua umanità, per essere un uomo che cura e non uccide. Si era laureato a Bologna e così l'università di Bologna lo ricorda:
Dietro alle parole del celebre motivo (Fischia il vento nda) c'è il giovane Felice Cascione, uno studente di medicina nato a Imperia nel 1918 e venuto a Bologna per coltivare la sua passione per l'arte medica, per lo sport e per quella politica che poi l'assorbì fino alla morte. Attivo antifascista sin dal 1940, Cascione, l'anno dopo la laurea conseguita nel 1943, si affianca alla madre nella guida delle manifestazioni popolari a Imperia per la caduta del fascismo. Una marcia per le strade che presto diventa lotta armata: dopo l'8 settembre, Cascione raccoglie infatti un piccolo numero di giovani e nella località di Magaletto Diano Castello anima la prima banda partigiana dell'Imperiese. Guida i suoi ad azioni vittoriose, ma lui, definito da Alessandro Natta "bello e vigoroso come un greco antico", non tralascia mai di prestare soccorso ai montanari delle valli da Albenga ad Ormea.
Una fedeltà alla professione così assoluta da condurlo all'errore. Durante la battaglia di Monterenzio i partigiani catturano un tenente e un milite della Brigate nere (M. Dogliotti). Un impaccio di cui la squadra si vorrebbe eliminare, ma che "U megu" - il dottore - vuole salvare, vedendo l'uomo sotto la divisa: "Ho studiato venti anni per salvare la vita di un uomo - dice Cascione - e ora voi volete che io permetta di uccidere? Teniamoli con noi e cerchiamo di fargli capire". Così i due fascisti seguono la banda in tutti i suoi spostamenti e Cascione divide con Dogliotti, il più malandato, le coperte, il rancio, le sigarette. C'è chi diffida, ma il medico replica a tutti che "non è colpa di Dogliotti, se non ha avuto una madre che l'abbia saputo educare alla libertà".
Passa circa un mese e il brigatista nero fugge. Pochi giorni dopo, Dogliotti guida alcune centinaia di nazifascisti verso le alture intorno ad Ormea, che sa occupate da unità garibaldine. All'alba la battaglia divampa dal versante di Nasino di Albenga. "U megu", con i suoi, tenta un colpo di mano per rifornirsi di munizioni. Il tentativo fallisce. Cascione, gravemente ferito, rifiuta ogni soccorso e tenta di coprire il ripiegamento dei suoi uomini. Ma due di loro non se la sentono di abbandonarlo e tornano indietro: Emiliano Mercati e Giuseppe Castellucci incappano nei fascisti. Mercati sfugge alla cattura, ma Castellucci, ferito, è selvaggiamente torturato perché dica dov'è il comandante. Cascione, quasi agonizzante, sente i lamenti del suo uomo seviziato, si solleva da terra e urla: "Il capo sono io!". Viene crivellato di colpi.
Dopo la sua morte, la brigata prese il nome di Divisione Garibaldi Felice Cascione alla quale aderì Italo Calvino, autore di questi versi:
"Avevamo vent'anni oltre il ponte / oltre il ponte che è in mano nemica / vedevamo l'altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte / tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore / a vent'anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l'amore."
(Appunti al margine del viaggio di Antonio Cipriani)
Luca Giunti, guardiaparco e attivista, parla del movimento No Tav
[Refugée, nella parte del progetto che affronta Rifugi]. Incontro con Luca Giunti, guardiaparco e attivista dei No Tav. Breve testimonianza video.
Intervento uscito su Pad pad Revolution venerdì 26 agosto 2011
Claviere, 23 agosto 2012. Luca Giunti, guardiaparco e attivista parla del movimento No Tav con Isabella Bordoni, Luca Berardi, Valentina Montisci e Antonio Cipriani in un incontro del progetto Refugée, nella parte che sta affrontando la parte Rifugi, attualmente in Val Susa.