Autocritica

Una caratteristica dei miei ultimi lavori, che forse è parte costitutiva dell'agire artistico più che una indole personale, è l'utilizzo di meccanismi e dispositivi reali che permettono una dilatazione dell'immaginario e la sua relativa traduzione in creazione. In particolare sento che il mio lavoro pone enfasi non tanto nella fase di traduzione, quanto nel dispositivo che innesca la creazione.

Anche Deriva n. 3 si basa su un meccanismo esperenziale che permette un allargamento della visione, ma è un metodo che devo ammettere io e Andrea non abbiamo indagato e vissuto fino in fondo. Sì, abbiamo testato questo modo di esplorare lateralmente il territorio e l'esperienza è stata vera, autentica. Reale era la mia tensione verso i tralicci, con una tendenza alla catalogazione feticistica; reale è stata la spinta alla ricerca di un altro sguardo, visionario. Ma l'esperienza in ultima analisi è stata superficiale, ben presto ridotta in parte ad essere funzionale all'opera, alla raccolta di fotografie e perciò disattivata troppo presto del suo carattere esistenziale di ricerca. L'esperienza della deriva che abbiamo fatto è stata troppo limitata e non abbiamo spinto, soprattutto io, sulla possibile radicalità di questa pratica, rimanendo l'azione un po' sterile, un po' esplicativa, senza il coraggio di osare. Il rimanere ancorati agli aspetti più giocosi e superficiali della deriva rispetto alle possibili intenzioni sovversive dello sguardo rimane nell'opera come un fantasma incompleto e l'eccesso di parole ne sono la dimostrazione. Non è il lavoro filmico finito ad essere incompleto, è la pratica della deriva che abbiamo vissuto noi, che ne costituisce la radice,  ad essere debole. Tuttavia, anche se il lavoro non è completamente armonico e contiene qualche ingenuità, ha tutti gli elementi vitali che me lo fanno descrivere come un'opera finita, a cui voler bene, con al suo interno i germi di ulteriori indagini ed esplorazioni.

Luca Berardi