top of page

ABITAZIONE

SITUAZIONISTA

WATERLOO SHOW / FRANCESCO SELVI

PHOTO/ PIERLUIGI FAGIOLI

UNA MOSTRA IN COLLINA

self/selvi

Mi hanno invitato a casa di un tipo, in collina, non lo conosco. A parte che non vado mai a casa di chi non conosco, a parte ciò non so so nemmeno cosa andiamo a fare. 'C'è una mostra' 'Di chi?' chiedo io 'di un tale...fa collage, film...' ecco, il solito megalomane, penso... la strada è impervia, arriviamo che già non vedo l'ora di tornare per un aperitivo al bar e per sapere le ultime dal Gianni, che ha una moretta per le mani davvero niente male. Da fuori non un rumore e già penso che siamo i primi ad essere arrivati, sento già quella bella patina di imbarazzo che fra poco mi coprirà tutto...ci sarà almeno un bar rifornito nella zona? ma che domande, certo che no, siamo dispersi fra i calanchi. Bene, ormai ci siamo, sorriso di circostanza e si entra. Appena varcata la soglia un suono lancinante ci accoglie, mi chiedo dove si nascondesse dato che fuori il silenzio infradiciava tutto. Tipi strani si aggirano per casa, chi ha occhi spiritati, chi ha al posto dei capelli una nuvola dispersa un buon mezzo metro sopra la mia testa. Il padrone subito compare con due bicchieri ed un'aria cordiale ed affabile, l'inizio è ok, mi dico. Beh, e la mostra? dov'è? comincio a scrutare in giro, la casa è piena di colore, squarci e rasoiate di suono mentre un cane si aggira senza fiatare e pare già un'installazione...ha un occhio di vetro! poi mi abituo, comincio a districarmi fra le forme e compaiono i primi collage, che mi fanno al primo colpo incazzare...perché d'accordo che un artista o presunto tale può permettersi più o meno tutto ma qui mi si prende per il culo...che senso ha questa frase? e perché un polmone trattiene un uccellino? bevo! intanto una musica fastidiosa a metà fra la pubblicità e il suono distorto mi arriva alle orecchie, mi fermo un attimo e seguo la storia, se una storia c'è...anche qui mi arrabbio, vorrei proprio vederlo questo tizio della mostra, io che oggi avevo voglia solo di un aperitivo. Torno ai collage, un secondo tempo...ma sono gli stessi? ah ecco, si, sono gli stessi, ma è come se fossero già qualcos'altro, prima non avevo visto un particolare, una scritta che disinnesca un controsenso lancinante...provo con un terzo tempo...ancora una volta qualcosa è cambiato, mentre anche io cambio, sto cominciando a non capire più se davvero mi si prende per i fondelli o se invece non debba essere io a prendere per i fondelli il senso comune...già mi pare non sia più necessario capire tutto per filo e per segno...sono bombardato dai colori, dai suoni, dalle allusioni e dalle metafore...non so come ma comincio a divertirmi, comincio ad entrare in una dimensione nuova dove tutto è gioco ed allo stesso tempo gioco serio, serissimo. L'audio mi dicono fosse una trasmissione radio, si chiama Forfora di Stelle, accozzaglia di suoni e squilli di trombe come una centrifuga che gira vorticosa con all'interno Toto Cutugno, Carmelo Bene, Darwin, domenica in e i bonzi giapponesi...ora non so come mi scappa anche da ridere, lo trovo pieno di ironia, insieme alla visione dei collage mi stende. Arrivo anche in cantina, nella legnaia, dove un video posato barbaramente sui ceppi manda in loop alcuni film...il discorso dell'audio e dei collage prosegue, fra continui rimandi a una nenia infinita di suoni e gorgoglii a metà fra il pargolo imbizzarrito e il respiro affannoso del bue che sa a quale fine sta andando incontro. Fra tutte queste visioni trovo anche il modo di commuovermi vedendo gli occhi del protagonista di un corto dal nome 'domani parto'. Ma questo tizio?si, il tizio della mostra...chi è? ora avrei voglia di conoscerlo, farci due chiacchiere, capire che gli frulla per il cervello...forse quello con la barba lunga? o quell'altro con la vocina esile da parere un bambino? ma in fondo, mi dico, non potrei riuscire a conoscerlo meglio di come già ho fatto immergendomi nel suo mondo di lazzi e scoppiettii. Salutiamo tutti e ce ne andiamo. Arrivo all'aperitivo. Al Gianni è andata male...meglio così! 

AVANTI TUTTA

Raffaele Ferrario

Il mondo di Francesco Selvi sembra popolato di ritagli, brandelli retró irriverenti nella propria composizione d’insieme. È la dialettica della contemporaneità che accomuna poeti e artisti, scrittori e performer. Il binario storico sul quale marcia in business la frammentazione. Per quanto differenti in sé, davvero tanti lavori di quest’epoca scisso-frenica ci riportano ad un messaggio di realtà frammentaria. Non è il messaggio preimpostato che si trova sui cellulari ma uno stato interno ed esterno, quindi vero nell’intimo e vero nella sua esposizione, capace di contenere indicativamente le persone nate dal 1960 al 1990. Allora diventa ineludibile lo starci dentro e indispensabile rappresentarlo tale universo di frammenti. Non è un principio addizionale, come in apparenza si potrebbe essere portati a interpretare, è una sottrazione. Osservando una qualsiasi delle opere di Francesco si ha l’impressione di collage incollati e sovraesposti, che tendono dal particolare al generale; quando invece la figura definitiva del quadro è un’architettura a perdere. Il profilo sfigurato di un edificio colpito dall’incuria del tempo. La deformazione ontologica della civiltà. Applicando questo punto di vista alla cosa osservata, il segno meno brilla come campione d’incassi, la sua valenza matematica è negativa e opera nell’essere uno strappo da riempire. Siamo nell’impossibilità di una ricomposizione della vita, che si tiene legata con la resistenza: termine che rimanda ai partigiani e al nuovo assetto planetario. Da una parte la finanza, che ha comprato anche i governi, dall’altra i partigiani disposti a tutto perché possa sopravvivere la trasmissibilità della cultura e la verità dell’arte. Dalle libere associazioni e per mezzo della loro carica evocativa, si evince il contenuto ironico e caustico dell’artista, che si muove da intruso nel passato e infiltrato nel presente, attraversando per immagini uno spaccato di anni compreso tra i Cinquanta e oggi. La goliardica presa in giro a ritroso usa il precedente, più che l’attuale, per irriderne i risultati raggiunti; ciò che sta sotto gli occhi di tutti: la vergognosa fine del senso di appartenenza e d’identità. Dall’aspetto tecnologico alla protovelina in acqua di colonia dolce vita. Dagli oggetti alla moda agli imbonitori di miracoli collettivi. Dalla sudditanza congenita italiana alle marche automobilistiche americane. C’è una ribellione radicale contro la velocità, perfidamente resa non solo con la carcassa di una nave che affonda, con le corrispondenze automatiche a certi fatti di mare della nostra attualità, ma con la mescolanza dei pezzi a supporto dello spettacolo ritratto. Il luogo comune è colpito con sarcasmo e canzonatura. Funzionano le immagini, da un proprio baricentro di arte povera, a mo’ di palcoscenico del cattivo modo di intendere dell’italiano medio, ne cristallizzano la prigionia, là dove cattivo nella sua etimologia significa prigioniero appunto. Un trip visivo, quello di Francesco, che viaggia rapido, scollato, incollato, franto, riattaccato, ancora rotto e ancora aggiustato. L’omogeneità seriale del boom economico, gli anni Cinquanta, l’esplosione dei diritti per tutti e ad ogni costo degli anni Sessanta e l’amaro frutto della rassegnazione odierna. Però i lavori, presi di per se stessi, mantengono la capacità di suscitare risate, oltre a malinconici sorrisi. Non rattristano il fruitore necessariamente, magari gli tirano la smorfia da una parte, lo stuzzicano ma il loro modo di porsi contempla il registro della monelleria costante applicata a forma e contenuto. Immagino che un pubblico attento possa divertirsi, come di certo è accaduto all’autore, di fronte al curioso montaggio proposto. Lo si sa, gabbare la tragedia non ha prezzo!

LA MUSICA DI IANNIS XENAKIS IN L'ATTESA DI FRANCESCO SELVI 

Dario Agazzi

Non sono frequenti, specialmente oggi in Italia, i casi di registi che adoperino nei loro film musiche dei “padri fondatori” della musica contemporanea: quei “padri” che, nella Darmstadt gloriosa degli anni 50-60 del secolo scorso, ridefinirono molti punti del linguaggio compositivo da noi ereditato: dalla scrittura al modo stesso di concepire l’esecuzione musicale, nonché la sua fruizione pubblica. Poche tracce di tale cosiddetta “scuola” di Darmstadt sono state recepite in terra italica, ove le arie belcantistiche perdurano anche in tempi grami, nei quali il belcanto certo stona, ma viene sempre presentato come “made in Italy”; un po’ come la pastasciutta, la pizza e oggi il prodotto “bio”, pure l’opera lirica appartiene a questi sapori artigianali che riempiono ben bene la pancia (avrebbe detto Brecht buonanima). Non è un caso che un libro di fondamentale importanza, La “scuola” di Darmstadt. I Ferienkurse dal 1946 a oggidel musicologo Antonio Trudu, pubblicato da Ricordi-Unicopli nel lontano 1992 non sia mai più stato ristampato in Italia. Lo cercai persino in siti statunitensi, disposto a sborsare anche congrue cifre. Ebbi la fortuna di riceverlo in fotocopia da Trudu stesso, il quale ha compiuto di recente un’opera pia, donando in rete – letteralmente – questo ponderoso lavoro a chi sia interessato all’argomento. Lo si trova sul sito di academia.edu. Poche tracce – si diceva – ma, laddove pervenute, molto significative. È il caso di un regista che abbiamo la fortuna di conoscere personalmente: Francesco Selvi, classe 1980, autore di soli cortometraggi dalla vena quanto mai bizzarra, del quale Lontano Ovest (2016) – sorta di parodia triste del Far West e dei miti che a esso si riconducono (“facile arricchimento”, “caccia grossa”, “selvaggi indomabili”) – è stato presentato al 34° Torino Film Festival. Film, quelli di Selvi, talora brevissimi: è il caso del suo Ecco, di soli quattro minuti, ma pregno di una stravagante inquietudine divertita e grottesca che sta sempre un centimetro al di qua della follia più nera. Vi è chi non apprezza le riprese digitali di Selvi, stracariche di colore patinato (la fotografia è curata dal sodale Luca Nervegna): ma è proprio questo eccesso a contraddistinguere il suo lavoro, in una forma-non forma, in un libero consegnarsi nelle braccia di ciò che è strampalato, onusto di stramberia. Non a caso, proviene dal teatro e realizza pure interessanti collage. Fra parentesi, il citato Ecco contiene in nuce tutti i tic e le idiosincrasie di Selvi: i soldatini e gli indiani (ci risulta che stia girando un film sulla nota sconfitta di Napoleone a Waterloo), i cucchiai giganteschi per sorbire le zuppe (presenti sia in Ecco che ne L’Attesa), lo sforzo titanico di conciliare il sé (inconscio) e l’immagine che di sé viene presentata agli altri. In una scelta sottile, il regista trasceglie (senza però dirlo neppure nei titoli di coda), per il suo cortometraggio L’Attesa – girato circa sei anni or sono – un movimento della composizione Pléïades (1978) del compositore Iannis Xenakis, dedicata alle sole percussioni (si trattava infatti di una commissione delle celebri Percussions de Strasbourg), e precisamente Claviers, destinato a: vibrafoni, marimbe, xilofoni e xilomarimbe. Di Xenakis (1922-2001), anche ingegnere e architetto, nato in Romania da genitori greci (provenienti dalle isole Eubea e Lemno), sfigurato dall’esplosione d’un ordigno in guerra nel 1945 (perse anche un occhio), condannato a morte nel 1946 per le sue attività politiche e morto – di morte naturale – a Parigi, il celebre direttore d’orchestra (e compositore) francese Pierre Boulez “buonanima” aveva detto, in una sua intervista a Piergiorgio Odifreddi riportata senza data sul sito medesimo di Odifreddi: «[…] Non aveva assolutamente orecchio: tutto ciò che ha fatto suona allo stesso modo. Aveva idee interessanti, ma non sapeva metterle in pratica: era più un pensatore che un musicista.» Non si può certo concordare con Boulez; anche perché tale giudizio, come Jaques Lacan insegna, si potrebbe rovesciare specularmente su Boulez stesso. E poi: Le Corbusier – dico: Le Corbusier – avrebbe mai lavorato con Xenakis (a partire dal 1948, sic) con il quale realizzò il Padiglione Philips a Bruxelles se questi “non avesse avuto orecchio”? Pace – si spera – all’anima di Boulez. Ricorderemo qui che Xenakis fu teorizzatore della musica stocastica, ovvero basata sulla teoria dei giochi di von Neumann, laddove la probabilità è calcolata rigorosamente. Limitiamoci al pezzo impiegato da Selvi: si tratta di una musica ingegnosa, ritmicamente raffinatissima – come lo è ad esempio il bel pezzo Mists (1980) per pianoforte, già languoroso, che si può ascoltare (con partitura!) sulla piattaforma YouTube. Selvi costruisce il film interamente sulla musica di Xenakis, utilizzata integralmente, la quale conferisce anche la durata al cortometraggio stesso: all’incirca 10 minuti e mezzo. Tutti i personaggi del lavoro, una curiosa accolita di individui che vanno dai picari affamati (ripresi brevemente come nei quadri di Bosch, con visi pesti e nasi adunchi mentre si spulciano) ai “signori” che gozzovigliano in una ricca sala affrescata (fra i quali è – con autoironia – il regista stesso), fino al “giullare di corte” (figuro imbambolato, quasi un uomo torso, ridanciano e sinistramente meccanico) nonché alla dama mesta, la quale apre il film recandosi a una croce sul colle per poi astenersi dal banchetto a palazzo in – forse – sopiti ricordi. La croce – segno di cristiana tumulazione – chiuderà il film con lo spegnersi della musica. Effetti di rallentamento e velocizzazione (proprio come in un comico film muto d’antan, qual è L’Attesa, tutto il suono essendo “affidato” a Xenakis) seguono la musica, e non viceversa. Se Selvi abbia tradotto in una lingua sua, personale, la partitura di Xenakis attraverso queste immagini di una corte stranita e fuori del tempo, palesemente kitsch (molto belli i costumi di Caterina Capelli), non è dato saperlo: resta una suggestione inspiegabile, burattinesca e – in fondo in fondo – ilarmente perturbata. •

https://www.rapportoconfidenziale.org/?p=38586

CONFIDENZIALE

RAPPORTO

bottom of page